
L'ORTO AMERICANO
A Bologna, ai tempi della Liberazione, un giovane problematico con aspirazioni letterarie si innamora al primo sguardo di una bellissima nurse dell’esercito americano. L’anno dopo, nel Midwest americano, lui andrà ad abitare in una casa contigua a quella della sua amata, separata solo da un nefasto orto. Lì vive l’anziana madre, disperata dalla scomparsa della figlia che non ha dato più notizie di sé dalla conclusione del conflitto. Inizia così da parte del ragazzo una tesissima ricerca che gli farà vivere una situazione terrificante, fino a una conclusione in Italia del tutto inattesa.
“Ancora una volta affrontiamo il genere ‘gotico’, in questo caso non solo confermando quei luoghi della nostra regione che sono risultati così significativi, ma allargandoci per la prima parte del racconto a quell’America rurale che è del tutto simile alla nostra Emilia-Romagna” dichiara il regista Pupi Avati.
Genere: Gotico
Regia: Pupi Avati
Attori: Filippo Scotti, Rita Tushingham, Chiara Caselli, Roberto De Francesco, Armando De Ceccon, Massimo Bonetti, Morena Gentile, Mildred Gustafsson, Romano Reggiani
Durata:107 min
Critica: L'Orto Americano è un film diretto da Pupi Avati, tratto dal suo omonimo romanzo edito nel 2023 da Solferino.
Dopo il sincero e appassionato ritratto del sommo Poeta (Dante, 2022) e il lucido e malinconico La quattordicesima domenica del tempo ordinario (2023), Pupi Avati decide di confrontarsi, ancora una volta, con il genere che l’ha reso un cineasta di fama internazionale. L’autore bolognese, infatti, torna ad esplorare le capacità espressive del gotico, omaggiando Mario Bava e altri grandi autori del passato, tra cui Carl Theodor Dreyer e Alfred Hitchcock.
In questo senso, L’orto americano, opera tratta dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso Avati, si pone quasi come un trattato filologico, summa artistica che attraversa ambienti, atmosfere e stilemi tipici del genere. Presentata Fuori Concorso come chiusura dell’81° Mostra del Cinema di Venezia, l’opera di Avati sviluppa una messinscena che esplicita il viscerale rapporto audiovisivo, centrale nel cinema di Avati, tra Amore e Orrore, Storia e Memoria. Da una parte, abbiamo l’amore angelicato (come lo era in Dante) nato dal casuale incontro di sguardi tra un giovane aspirante scrittore (simulacro dello stesso Poeta) e una bellissima soldatessa americana (novella Beatrice), in servizio a Bologna. Dall’altra parte respiriamo l’orrore: quello della Seconda Guerra Mondiale appena conclusa, con i cadaveri dei giovani soldati inglesi e americani caduti sul campo di battaglia, con i loro corpi mutilati e massacrati, ammassati uno sopra l’altro tra le strade di una terra straniera.
Avati, per la prima volta nella sua carriera, porta in scena il secondo dopoguerra italiano, lavorando sul traumatico stato di salute mentale di un paese devastato dalla guerra, dalla morte e dalla fame. Proprio per questo, la complicata condizione mentale del giovane scrittore protagonista del racconto, interpretato da Filippo Scotti, la cui malattia psichica gli fa pensare di poter dialogare con i propri defunti, si rende metafora dello scollamento di un paese intero e della sua incapacità, nascosta nelle segrete del proprio inconscio, di superare il trauma della Seconda Guerra Mondiale. Il perfetto rifugio da un paese devastato dal conflitto come l’Italia è rappresentato dalle confortanti atmosfere del Midwest americano, dove il ragazzo si trasferisce nella prima parte del racconto per poter scrivere in pace il suo ultimo manoscritto. Proprio da una di queste townhouse, o più precisamente dall’orto di una di queste case, inizierà a sbrogliarsi la matassa intricata di un caso di cronaca nera che collega Italia e Stati Uniti. Da qui, il giovane scrittore partirà per una disperata ricerca dell’amore perduto facendo i conti con l’ineluttabile irruzione dell’orrore e della morte.
Nel film di Avati non mancano certo i colti e precisi riferimenti filologici alla poesia lirica greca di Archiloco e Bacchilide o le immagini che trasudano rispetto e amore incondizionato nei confronti dei propri personaggi, mai ridotti a semplici macchiette.
“La prima cosa che faccio, prima ancora di esplorare l’appartamento americano, è decidere dove posizionare la macchina da scrivere per avere vicinissime le foto dei miei morti. Mentre scrivo debbo poter vedere mio padre con il suo cane, la zia Teta con il colletto di pizzo, l’Elsa con la crestina e la teiera, lo zio Tini e la zia Laura che mi tengono per mano sul prato di San Lazzaro e tutti gli altri che non ci avrebbero mai creduto che un giorno sarebbero venuti con me in America. Me li sono portati da Bologna e se il vetro che li protegge, malgrado l’infinito viaggio in nave, non si è rotto è un buon segno per uno scrittore.
Sono i miei morti che mi suggeriscono le storie da raccontare. Almeno a Bologna era così. Li fissavo bene, a volte anche per un giorno, e poi, all’improvviso mi mettevo a scrivere, fulmineo. Quando mi fermavo tornavo a guardare lo zio Taddeo che quattro anni fa è finito sotto un bombardamento. È il loro aiuto che mi è indispensabile. Ho scoperto che per scrivere delle belle storie devi avere molti morti. E io ne ho a sufficienza per aver scritto sei romanzi, pronti per qualcuno che finalmente li pubblichi. Senza contare quello che scriverò qui che sarà il mio primo romanzo americano.
Quella del romanziere è una competenza che mi deriva da quando ebbi quell’altissima febbre per la quale mi ricoverarono per due anni al manicomio Roncati”.
Questa la descrizione iniziale del protagonista de L’ORTO AMERICANO. Una sorta di identikit psicologico (o forse addirittura psichiatrico) in cui molto mi riconosco. Protagonista che pur vivendo una vicenda che appartenendo a un “genere” che io e Antonio abbiamo praticato con una certa regolarità nell’arco lungo della nostra carriera (dalla remota CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO al più recente IL SIGNOR DIAVOLO) offrirà agli amanti del genere alcuni aspetti destinati ad ampliarne i già pur vasti confini.
La storia che narro, anticipata dal romanzo omonimo pubblicato da Solferino, è anche “scorrettamente” una storia d’amore. Una storia d’amore assoluta, dove l’impossibile diventa possibile, come in quel cinematografo che ho sempre amato.
Un racconto “gotico” che si svolge al concludersi della Seconda guerra mondiale vissuta sia nella provincia americana che nel Polesine, dove il ritrovamento di cadaveri di americani o inglesi rappresentò una lucrosa attività.
E poi la scoperta del bianco e nero, di quello autentico. Il comparare l’immagine reale che avevamo composto con la stessa immagine in b\n che si appalesava sul monitor mi produceva sempre un brivido, un momento di orgoglio infantile.
Non stavamo girando un film, finalmente stavamo facendo il cinema! Pupi Avati