PARTHENOPE
Il regista premio Oscar Paolo Sorrentino torna a raccontare la sua amata Napoli attraverso la storia femminile di Parthenope.
Quando ha settantatré anni e va in pensione, deve cambiare ancora, imparare a vedere il suo passato, il sacro dentro di lei. Tornare ad amare troppo. O immaginare di farlo. Dunque, tornare a Napoli, la città snob e selvaggia che non cambia mai e, ancora una volta, dopo tanti anni, sa illudere, regalando, forse, l’unico sentimento che ci tiene invita fino all’ultimo: la capacità di meravigliarci. Allora Parthenope sospira. Come faceva da ragazza
Il lungo viaggio della vita di Parthenope, dal 1950, quando nasce, fino a oggi. Un’epica del femminile senza eroismi, ma abitata dalla passione inesorabile per la libertà, per Napoli e gli imprevedibili volti dell’amore. I veri, gli inutili e quelli indicibili, che ti condannano al dolore. E poi ti fanno ricominciare. La perfetta estate di Capri, da ragazzi, avvolta nella spensieratezza. E l’agguato della fine. Le giovinezze hanno questo in comune: la brevità. E poi tutti gli altri, i napoletani, vissuti, osservati, amati, uomini e donne, disillusi e vitali, le loro derive malinconiche, le ironie tragiche, gli occhi un po’ avviliti, le impazienze, la perdita della speranza di poter ridere ancora una volta per un uomo distinto che inciampa e cade in una via del centro. Sa essere lunghissima la vita, memorabile o ordinaria. Lo scorrere del tempo regala tutto il repertorio di sentimenti. E lì in fondo, vicina e lontana, questa città indefinibile, Napoli, che ammalia, incanta, urla, ride e poi sa farti male.
Genere: Drammatico
Regia: Paolo Sorrentino
Attori: Gary Oldman, Celeste Dalla Porta, Silvia Degrandi, Isabella Ferrari, Lorenzo Gleijeses, Peppe Lanzetta, Silvio Orlando, Luisa Ranieri, Stefania Sandrelli, Alfonso Santagata, Francesca Romana Bergamo, Dario Aita, Paola Calliari, Biagio Izzo, Nello Mascia
Durata:136 min
Critica: Parthenope è una incantevole giovane donna nata dalle acque che seduce ogni uomo che incontra, persino il fratello Armando, suo primo e indimenticabile amore. Parthenope è anche la sirena al centro del mito fondante della città di Napoli che, come scriveva Matilde Serao nelle Leggende napoletane, "vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni, e corre ancora sui poggi, erra sulla spiaggia, si affaccia al vulcano, si smarrisce nelle vallate". E la protagonista di Parthenope di Paolo Sorrentino fa esattamente questo, perdendosi continuamente e attirando a sé scrittori omosessuali, docenti universitari, prelati addetti ai miracoli e boss della camorra. Ma il più devoto resta Sandrino (col diminutivo che Sorrentino affida ai suoi alter ego), amico fin dalla perfetta estate in cui lui e la sua sirena, e Armando con loro, "sono stati bellissimi e infelici".
Come può raccontare Napoli un suo figlio che l'ha lasciata alle spalle tanto tempo fa e che ora, all'avvicinarsi dell'età matura, acutamente la rimpiange, amandola e detestandola nello stesso respiro?
Parthenope prosegue il viaggio a ritroso di Paolo Sorrentino verso la sua città natale lasciato in sospeso con È stata la mano di Dio, quando Fabietto percorreva su un treno il tragitto che l'avrebbe ricollocato a Roma, abbandonando quella città che è sì "na' carta sporca", ma non è vero che "nisciuno se ne importa", perché al regista importa assai della sua Napoli bella e perduta.
"Come è enorme la vita, ci si perde dappertutto", recita la citazione di Céline che apre i film, e che dà la misura dello smarrimento di Sorrentino in cui è dolce, e allo stesso tempo doloroso, naufragare. E il regista affida alla sua protagonista quello struggimento che si esprime al meglio proprio attraverso le canzoni, dalla straziante "Era gia tutto previsto" di Riccardo Cocciante, che sottolinea la qualità inesauribilmente prevedibile di una città fatta per strapparti il cuore, a "Che cosa c'è" di Gino Paoli e Ornella Vanoni, che evoca l'inspiegabilità (e inevitabilità) di ogni innamoramento, e soprattutto al "suono suonante che non riesci mai ad inscatolare" che è la musica di Enzo Avitabile.
Parthenope peregrina attraverso le mille facce di Napoli, con quella seduttività naturale che porta scompiglio e confusione, malattia (il colera degli anni Settanta) e risanamento, e che scioglie il sangue "int'e vene" come nell'ampolla di San Gennaro. L'autrice della fotografia è ancora una volta la pirotecnica Daria D'Antonio, la più appropriata per raccontare un eterno femminino multiforme, e il montatore Cristiano Travaglioli fa fluire ogni incarnazione di Parthenope in quella successiva.
Dal 1950 ad oggi la sua Parthenope ha sempre la risposta pronta ma non è in grado di porsi le giuste domande, non sa niente ma le piace tutto, è affamata di conoscenza e assetata di libertà. Sorrentino accarezza il suo corpo pagano come la plasticità di ogni superficie a lui cara: l'acqua, la pietra, la luce azzurra dei panieri calati dalle finestre. Cammina "a braccetto con l'orrore", creando rituali grotteschi che come sempre devono molto a Fellini: e se La grande bellezza richiamava La dolce vita, Parthenope è un Amarcord pieno di rimpianti verso quella città confusa fra "l'irrilevante e il decisivo", ma attraversata da una dea che "non si vergogna mai" e che passa senza soluzione di continuità (possibilmente in piano sequenza) dai vicoli di Napoli alle spiagge di Posillipo, mescolando alto e basso, miseria e nobiltà.
Le maschere che punteggiano questo paesaggio scostumato sono quelle di un professore (il sempre più bravo Silvio Orlando) con un figlio fatto di "acqua e sale", di una diva che insegna recitazione (la sempre più brava Luisa Ranieri), del vescovo Peppe Lanzetta e del John Cheever di Gary Oldman. Parthenope è la mirabile Celeste Dalla Porta, ma "conosceremo bene" il suo personaggio solo quando sarà un'altra diva a prenderne le sembianze.
Come già in Youth, Sorrentino riflette sull'età che avanza paragonata ad una giovinezza perfetta, su ciò che non gli sarà mai dato di comprendere ma anche sulla capacità di vedere come "l'ultima cosa che si impara quando è venuto a mancare tutto il resto". E Parthenope è intriso in dosi uguali di malinconia e di scontento: ma "a Napoli c'è sempre posto per tutto", anche per l'incapacità di fare pace col passato e di imparare dai propri errori: vale per le città come per gli esseri umani. TORNA ALLA HOME PAGE